sabato 5 novembre 2011

I buchi nel muro

Dice Gabriel García Márquez nella sua autobiografia: La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.

Mai frase più adatta per il mio Blog.

In tempi tanto vuoti di contenuti e di idee, continuare a mantenere un blog di ricordi e di sentimenti sembra una fissazione infantile e altrettanto inutile, quanto i tempi citati.

Come è chiaro, non credo che sia così, anzi dico proprio il contrario. Scrivere di ricordi e "sentimentalismi" è un modo importante per credere in una nuova rinascita. Chi ama le proprie radici ama innanzitutto il proprio futuro e da lì ogni volta riparto nei momenti di sconforto "sociale" e ideale.

E allora cominciamo. Se non siete conoscitori del mio blog, vi consiglio di leggere alcuni post come Il campetto dei sogni o A festa ri' San Petru o meglio ancora I nasse ra’ Signura Lucrezia. Possono essere buoni preamboli.

Per un bambino, si sa, un pallone è il massimo dei divertimenti. Per un bambino di Trapani - e Sampitraro in particolar modo - poco importava alla fine degli anni 80' se si giocasse tra le auto parcheggiate o se si scavalcasse innocentemente mura o recinzioni di strutture pubbliche che dovevano essere aperte e invece erano maledettamente e inesorabilmente chiuse. Sempre.

E quand'erano aperte non erano fruibili dai bimbi del quartiere, ma soltanto dagli appartenenti all'"élite" della struttura stessa. Si obietterà che tutto ciò rientra nelle dinamiche sociali che insegnano il rispetto delle regole (una faccia della medaglia): se un cancello è chiuso non si scavalca, ma si aspetta la regolare apertura. Si potrebbe dire anche (l'altra faccia della medaglia) che scavalcare il muro era un modo per sfogare le proprie emozioni e raggiungere il divertimento in un contesto di abbandono sociale e scarso interesse da parte di quelle famigerate "agenzie educative" di cui si fa tanto parlare, oggi come allora e oggi come allora poco presenti a Trapani.

Scavalcare il muro era - non solo metaforicamente, ma anche fisicamente - il raggiungimento di un obiettivo: la partita di calcio. Per poterlo scavalcare, i ragazzi più grandi avevano inciso su di esso dei buchi, grandi abbastanza a contenere la punta delle scarpe di un ragazzino, al massimo di un quindicenne.

I buchi nel muro che servivano ad arrampicarsi sopra al "Maresciallo" 
I buchi nel muro, questa rudimentale scaletta, portavano dritti dritti al divertimento, ai tornei improvvisati tra squadruncole di bambini e adolescenti, poco curati dalla società, ma con tanta inventiva. Mi ricordo in quel piazzale decine e decine di bambini e tanto, tanto sano divertimento e anche urla, spintoni e a volte anche risse.

Come quella volta che Mauro litigò con Tore e lui piagnuccolante e di corsa scappò. Noi continuammo a giocare, ma appena dopo una mezz'oretta vedemmo tornare Tore spavaldo, accompagnato da uno stuolo di difensori tra cui emerse subito una donna, alta a spanne quanto noi ragazzini stessi.

"Senti tu, sceccu rosso! Ti pare ggiusto chi ta pigghiasti cu iddro chi è a metà ri tia???"

Così disse a Mauro la mamma di Tore che per la verità aveva solo qualche anno in più di suo figlio, ma in effetti era alto già almeno un metro e settanta o forse più. Mauro era di poche parole e anche in quell'occasione non si smentì, ma a me rimase impressa la scena e oggi - da genitore - sorrido a ripensarla.

E poi mi chiedo ancora "ma a matri di Tore vulao o sblaccau???"

Come sia riuscita a saltare il muro era facile capirlo, ma non riesco a capire come poté allora evitare di essere vista dal bersagliere che piantonava lo spiazzo adiacente al plesso dove era situato quel campetto.

Forse i miei ricordi su questa vicenda sono sfocati. Tuttavia, mi ricordo gli incontri e gli scambi che i ragazzini del quartiere avevano con i militari (di leva) che presidiavano alcuni punti d'interesse come il Tribunale o gli accessi alle abitazioni di giudici più o meno importanti.

Qualche anno dopo scoprì che quella era l'Operazione "Vespri Siciliani" e che io - proprio io - e i miei coetanei l'avevamo vissuta sulla nostra pelle. Per noi era solo un gioco chiedere il "cappello" (il fez) o farsi regalare qualche bottiglietta di cordiale che una volta portata a casa era sequestrata e serviva a papà a raccontare del servizio militare al freddo di Aviano. Ma intanto quei ragazzi scrivevano pagine di storia italiana, mentre noi eravamo "solo" piccoli dettagli di contorno.

Finita la partita, poi, si doveva di nuovo oltrepassare il muro e giunti su in cima ci si mollava rimanendo prima un attimo appesi come dei salami e poi mollandosi tutto d'un colpo si crollava a terra, impolverandoci.

Per quel giorno non avremmo più calciato un pallone o forse sì, ma dall'altra parte del muro era stato divertimento puro... e sano.

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